“Saremo sempre con l’acqua alla gola”. Maurizio Sarri, 56 anni a gennaio, fuma nel suo piccolo studio dentro lo Stadio Castellani. “Per salvarci dovremo stare tutto il tempo in punta di piedi. Siamo partiti bene, ma ci manca qualche punto. La società mi ha scelto per crescere giovani e portare avanti un progetto. Non mi mette fretta e ad Empoli esiste ancora il concetto di appartenenza”.
Brocchi dice che lei è uno dei tecnici più preparati d’Italia, ma che il suo limite potrebbe essere la gestione di un gruppo con big e primedonne.
Ha detto una cosa molto intelligente. Anch’io mi chiedo se sarei in grado di allenare una grande squadra. Esigo molto lavoro e abnegazione: un giovane lo accetta, qualche star no.
Eppure lei ha sostenuto di conoscere il modo per far rigare dritto Balotelli.
Non ho detto esattamente questo. Se avessi Balotelli, gli chiederei: “Sei sicuro di avere ottenuto tutto quello che potevi?”. Se si accontenta così, nulla da dire. Se invece accetta di mettersi in discussione e lavorare tante, a quel punto sì che può migliorare.
Zenga: “C’è chi nasce con la camicia e chi ogni giorno deve comprarsela. Sarri appartiene alla seconda categoria, come me”.
E’ normale che uno come me debba sudarsi ogni traguardo, è più strano che capiti a lui. Forse si è fatto qualche nemico e paga il luogo comune del portiere che non può essere un grande allenatore. I luoghi comuni non sono mai sinonimo di intelligenza e il calcio ne è pieno.
Anche lei è stato appesantito da molti luoghi comuni.
Per esempio la storia dell’impiegato in banca. Mi occupavo per il Montepaschi di transazioni. Non ho giocato ad alti livelli e molti hanno creduto che fossi uno sprovveduto.
Perché non ha fatto carriera come calciatore?
Ero un difensore roccioso e di carattere, ma con poco talento. Giocavo nella Figline. A 19 anni mi voleva il Montevarchi, ma il Figline chiese 50 milioni: troppi. Arrivò il Pontedera, mi piccai e rifiutai: uno sbaglio, perché loro salirono in C1. Rimasi a Figline e mi spaccai tutto: addio carriera, ma non sarei andato lontano comunque. Non ho rimpianti e in fondo ero già allenatore a 16 anni.
Addirittura.
Giocavo negli Allievi. Il nostro allenatore, il giorno della partita, non si presenta perché in rotta con la società. Io dico ai compagni che si gioca comunque: scrivo le liste, metto l’autista come dirigente accompagnatore, faccio l’allenatore-giocatore e vinciamo in trasferta. Il giorno dopo l’allenatore tornò: “Non mi dimetto più, resto per voi”.
Dicono che lei abbia almeno 33 schemi.
Una diceria nata quando allenavo la Sansovino. Ci rimasi tre anni e gli schemi ovviamente si sommarono. Un giocatore, in una intervista, parlò di 33 schemi e ancora mi porto dietro questa cosa. In realtà sono 4-5 a partita, come tutti.
Cosa scrive in quel taccuino durante le partite?
Scrivo per due motivi. Prendo appunti per fissare quelle quattro cose da dire nell’intervallo e mi segno i minuti chiave per accorciare i tempi in fase di montaggio quando riguardiamo le partite. Tra allenamenti, video e letture, studio tattica fino a 13 ore al giorno. Comunque anche Mourinho e Van Gaal scrivono di continuo, mica solo io.
Di Francesco è zemaniano. Lei?
Non ho un allenatore specifico a cui ispirarmi. Zeman mi piace, ma mi piaceva anche lo Spalletti della Roma. Come percorso umano somiglio invece a Ulivieri. Zeman è quello che più caratterizza le squadre e riesce a far segnare chiunque. Certo, a volte attacca in 7-8. Dice che l’importante è fare un gol in più degli altri e idealmente ha ragione. In Italia, però, negli ultimi 50 anni la serie A è stata vinta quasi sempre dalla miglior difesa.
Il calcio italiano è malato. Cure?
Investire sugli stadi, quasi tutti vecchi, e sui terreni: perché abbiamo campi orrendi nonostante il nostro clima? Esistono poi generazioni più forti e più deboli: questa è più debole. E si punta troppo sugli stranieri anche nelle giovanili. Ecco perché Valdifiori arriva in Serie A solo a 28 anni e Croce a 32.
Conte se l’è presa con i club perché non aiutano la Nazionale.
Non era certo una situazione imprevedibile per lui e l’aiuto deve essere reciproco. Non parlo nello specifico di Conte, ma due settimane fa la mia rosa è stata utilizzata da 7 nazionali. Ce ne fosse stato uno, dico uno, che mi ha fatto una telefonata.
Ha rimpianti in carriera?
Verona e Perugia. Forse ho trasmesso cupezza e negatività. Ho un carattere forte e devi imparare a dosare la rabbia. Con la Juve abbiamo retto bene 62 minuti, poi Pirlo ha segnato tirando male una punizione che è passata grazie a uno dei nostri. Si è abbassato in barriera. Il primo istinto è spaccare tutto. Ma quel ragazzo ha 19 anni, devi preservarlo e non traumatizzarlo: così entri nello spogliatoio, tiri due “bestemmioni” ma poi gli dai una pacca sulla spalla.
Quando la intervistano nei post-partita sembra un ufo.
(sorride) Credo che molti miei colleghi si “abbassino” di proposito. Dicono frasi un po’ scontate per adeguarsi al contesto e non passare per pedanti. Anch’io all’inizio ci provo, ma già alla seconda domanda mi torna la voglia di parlare di tattica.
Lei legge molto: Bukowski, Fante, Vargas Llosa.
Mi piace andare per biblioteche, annusare la carta, guardare le quarte di copertina. La musica non riesco ad amarla, ma senza libri non saprei stare.
Non pare amare granché neanche Renzi.
Mi fa paura che si distrugga l’articolo 18 nell’indifferenza pressoché generale. Sono nato a Napoli ma sono di Figline Valdarno, due passi da Rignano. Renzi mi pare uno che fa le stesse cose di Berlusconi, o quasi. Mio nonno era partigiano e mio padre operaio: come faccio a votare Renzi? Però neanche voto 5 Stelle: non ce la faccio.
Magari aspetta Landini.
Diciamo che, se facesse politica, lo ascolterei con attenzione. Una volta ero in volo con una mia squadra. Vedo Franceschini. Mi alzo e gli siedo accanto. Gli chiedo: “Senti, mi spieghi una cosa. Com’è che in Italia la sinistra non fa mai una cosa normale”?
E Franceschini?
Mi ha detto che, in effetti, avevo ragione.
(Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2014)